E’ possibile irrogare il licenziamento per l’abbigliamento e l’acconciatura di un dipendente?
La risposta è sì. Ma a determinate condizioni, ovviamente.
Abbiamo preso spunto da una recente sentenza della Corte di Cassazione per approfondire questo particolare argomento e spiegare in quali casi sia possibile irrogare il licenziamento al dipendente che viola le norme disciplinari sull’abbigliamento e sulla acconciatura (capelli e barba).
I doveri di comportamento del dipendente
Il tema dei doveri del dipendente è trattato nei CCNL con varie formulazioni, le quali in genere prevedono che il dipendente debba:
- agire con contegno e rispetto dell’utenza
- agire con criteri di responsabilità
- attenersi alle disposizioni impartite dal datore di lavoro
- attenersi alle regole aziendali
- osservare in modo scrupoloso i propri doveri.
Le violazioni di tali doveri posso comportare motivo di licenziamento del dipendente.
In particolare, per quanto riguarda gli aspetti in trattazione, interesserà la violazione del regolamento aziendale.
Il fatto
La questione oggetto della valutazione della Corte di Cassazione ha ad oggetto la contestata reiterata inosservanza delle disposizioni regolamentari di divieto, per il personale a diretto contatto con i pazienti della R.S.A. di indossare in servizio monili o mantenere acconciature non ordinate, che possano costituire veicoli di contagio per pazienti fragili e immunodeficienti presenti nella struttura.
In particolare, è stato contestata la violazione reiterata del regolamento ad un dipendente che, nonostante i plurimi inviti ad adeguarvisi, aveva continuato ad indossare una vistosa catena a larghe maglie al collo, anelli, un grosso bracciale e un voluminoso orologio, tutti di metallo; ed inoltre aveva mantenuto un lungo pizzetto al mento.
Tali comportamenti avrebbero violato l’art. 40 del CCNL applicato per essere atti di insubordinazione, integranti gravi negligenze in servizio, potenzialmente nocive alla salute dei pazienti e idonee a pregiudicare l’immagine della struttura sanitaria.
Il dipendente è quindi stato licenziato.
Le motivazioni della Corte di Cassazione
Il principale motivo di doglianza sottoposto dal dipendente alla Corte di Cassazione ha riguardato la ritorsività del licenziamento irrogatagli.
La Corte, sul punto, ha ribadito che i principi di diritto in tema di licenziamento ritorsivo prevedono che l’accertamento della sua nullità sia subordinato alla verifica che l’intento di vendetta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di risolvere il rapporto di lavoro.
Il motivo illecito addotto, ai sensi dell’art. 1345 c.c., deve essere infatti:
- determinante, ossia costituire l’unica effettiva ragione di recesso
- esclusivo, ossia il motivo lecito formalmente addotto deve risultare insussistente nel riscontro giudiziale.
Di tal che, la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all’applicazione della tutela prevista dal testo novellato dell’art. 18 comma I della L. n. 300/1970, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento.
Qualora la causa sussista, non può quindi ricorrere l’ipotesi del licenziamento ritorsivo.
Nel caso di specie, i Giudici di merito hanno ritenuto sussistente la proporzionalità del licenziamento disciplinare in ragione della gravità complessiva di più infrazioni del regolamento aziendale. Nonchè dell’accertamento della “persistente volontà di disattendere le prescrizioni aziendali” da parte del dipendente.
Attesa la sussistenza dei comportamenti contestati al dipendente, il licenziamento intimato è stato quindi ritenuto proporzionato per “l’irrimediabile vulnus al rapporto fiduciario” tra le parti.
La Corte ha sottolineato che tali affermazioni siano insindacabili in sede di legittimità, in quanto implicanti un apprezzamento dei fatti spettante solo al Giudice di merito.
La recidiva e la rilevanza della reiterazione
La Corte di Cassazione si è occupata inoltre delle questioni inerenti la contestazione della recidiva e la rilevanza della reiterazione del comportamento disciplinarmente illecito.
In particolare, l’attenzione si è focalizzata sui principi di diritto in tema di rilevanza della recidiva e di previa contestazione della precedente contestazione quale suo presupposto.
Per la Corte, in materia valgono i seguenti principi di diritto:
- ai fini disciplinari, la recidiva, per sua stessa natura, presuppone non solo che un fatto illecito sia posto in essere una seconda volta, ma che lo sia stato dopo che la precedente infrazione sia stata (quanto meno) contestata formalmente al medesimo lavoratore;
- ove tale contestazione per la precedente infrazione sia mancata, e non sia pertanto configurabile la recidiva
- la reiterazione del comportamento, che si ha per effetto della mera ripetizione della condotta in sé considerata, non è irrilevante, incidendo comunque sulla gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore, che, essendo ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi del lavoratore
- la reiterazione può, pertanto, essere comunque sanzionata in modo più grave.
Potete approfondire l’argomento, leggendo il testo dell’ordinanza della Corte di Cassazione QUI →
Per la relativa consulenza nell’ambito degli argomenti trattati in questo articolo o per l’assistenza in giudizio, potete contattare l’avv. Andrea Spreafico.