Il riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso

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I punti chiave
  • La Corte di giustizia europea ha stabilito che il riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso, legittimamente contratto in uno Stato membro, deve essere accettato anche negli altri Stati membri.
  • Attualmente, in Italia esistono quattro tipi di matrimonio e due forme di convivenza, ma solo le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono regolamentate dalla legge dal 2016.
  • Le unioni civili non offrono gli stessi diritti del matrimonio e c’è un movimento per abolire le differenze tra unioni civili e matrimonio in Italia.
  • Negli altri paesi dell’Unione europea, 22 riconoscono il matrimonio tra persone dello stesso sesso, mentre in 10 ci sono forme di unione civile.
  • La Corte ha affermato che rifiutare il riconoscimento del matrimonio contravviene ai diritti alla libertà di circolazione e soggiorno dei cittadini dell’Unione.

La Corte di giustizia europea ha stabilito che il riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso, legalmente contratto in uno Stato membro, debba essere riconosciuto negli altri Stati membri.

Una pronuncia cardine nel sistema di diritto e nel riconoscimento dei diritti delle coppie c.d. omosessuali, i cui principi abbiamo approfondito in questo articolo.



Il matrimonio in Italia

Per trattare l’argomento, è opportuno ricordare che in Italia attualmente siano previste quattro forme di matrimonio:

  • civile
  • religioso
  • concordatario
  • acattolico.

Mentre le forme di convivenza riconosciute dallo Stato italiano sono due:

Per il nostro ordinamento, vi sono differenze tra il matrimonio e le forme di convivenza riconosciute.

La prima e più evidente differenza è quella riguardante il fatto che il matrimonio – a differenza di unione civile e patti negoziali – posso essere celebrato esclusivamente da un uomo ed una donna; con esclusione, quindi, delle unioni di persone dello stesso sesso.

Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze

La Legge 20 Maggio 2016 n. 76 ha introdotto nel nostro ordinamento e regolamentato le unioni civili tra persone delle stesso sesso nonchè disciplinato le convivenze di fatto.

Per la legge, due persone maggiorenni dello stesso sesso possono costituiscono un’unione civile.

L’unione civile si costituisce mediante dichiarazione di fronte all’Ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni.

L’unione civile tra persone dello stesso sesso è certificata dal relativo documento attestante la costituzione dell’unione, che deve contenere:

  • i dati anagrafici delle parti
  • l’indicazione del loro regime patrimoniale
  • la loro residenza
  • i dati anagrafici e la residenza dei testimoni.

Le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell’unione civile, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi.

La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all’Ufficiale di stato civile.

Con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri.

Dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione.

Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni.

Al fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti la parola “coniuge” o termini equivalenti si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile.

Il matrimonio egualitario

Poichè le unioni non garantiscono alle coppie gli stessi diritti del matrimonio, in Italia ed all’estero, è nato un movimento referendario che ha come obiettivo la cancellazione di alcuni passaggi della legge Cirinnà per eliminare le disparità tra unioni civili e matrimonio.

Secondo i promotori, le unioni civili non consentono il pieno riconoscimento della famiglia, con riflessi potenzialmente pregiudizievoli per i figli in caso di morte di uno dei coniugi.

Gli altri Paesi dell’Unione Europea

Il matrimonio tra persone dello stesso sesso viene attualmente riconosciuto in 22 Paesi europei:

  • Andorra
  • Austria
  • Belgio
  • Danimarca
  • Estonia
  • Finlandia
  • Francia
  • Germania
  • Grecia
  • Irlanda
  • Islanda
  • Liechtenstein
  • Lussemburgo
  • Malta
  • Norvegia
  • Paesi Bassi
  • Portogallo
  • Regno Unito
  • Slovenia
  • Spagna
  • Svezia
  • Svizzera.

Mentre il matrimonio viene definito in forma esclusiva come un’unione tra uomo e donna nelle Costituzioni dei seguenti Paesi:

  • Armenia
  • Bielorussia
  • Bulgaria
  • Croazia
  • Georgia
  • Lettonia
  • Lituania
  • Moldavia
  • Montenegro
  • Russia
  • Serbia
  • Slovacchia
  • Ucraina
  • Ungheria.

In 10 Paesi europei sono riconosciute forme di unione civile:

  • Cipro
  • Croazia
  • Italia
  • Monaco
  • Montenegro
  • Repubblica Ceca
  • San Marino
  • Ungheria.

Potete approfondire l’argomento QUI.

La vicenda storica

Chiarito il quadro normativo di riferimento, passiamo ad esaminare la vicenda che è stata sottoposta al giudizio della Corte Europea.

La vicenda riguarda il matrimonio tra un cittadino avente cittadinanze polacca e tedesca ed altro cittadino dello stesso sesso, avente cittadinanza polacca.

Il loro matrimonio è stato celebrato a Berlino, nel corso del 2018.

Il coniuge con cittadinanza polacca ha successivamente presentato all’Ufficio di stato civile di Varsavia la domanda di trascrizione dell’atto di matrimonio nel registro dello stato civile polacco.

Nel corso del 2019, la domanda è stata respinta.

Il provvedimento è stato motivato dal fatto che il diritto polacco non preveda il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Pertanto, la trascrizione di un atto di matrimonio straniero avrebbe violato i principi fondamentali sanciti dall’ordinamento giuridico della Repubblica di Polonia.

Il ricorso

Avverso il provvedimento, i coniugi hanno proposto ricorso per cassazione dinanzi alla Corte suprema amministrativa polacca.

Nel ricorso, hanno sostenuto che il mancato riconoscimento del loro matrimonio costituisse una restrizione sproporzionata alla loro libertà di circolazione e di soggiorno nel territorio degli Stati membri, a causa della diversa valutazione del loro stato civile in Polonia e in Germania.

In particolare, hanno lamentato di dover vivere con due stati civili diversi in due Paesi dell’Unione: come persone coniugate in Germania e come persone non coniugate in Polonia.

Tale differenza avrebbe determinato l’impossibilità di proseguire, in Polonia, la stessa vita privata e familiare che conducevano in Germania.

Circostanza che li avrebbe dissuasi dal soggiornare nel territorio della Repubblica di Polonia.

La decisione della Corte suprema amministrativa polacca

La Corte suprema amministrativa polacca, nel valutare il ricorso promosso dai coniugi “tedeschi“, ha deciso di sospendere il procedimento e di rimettere la questione alla Corte di Giustizia Ue.

Il giudice polacco ha chiesto alla Corte di giustizia europea se, alla luce della normativa comunitaria, uno Stato membro possa rifiutare la trascrizione di un atto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, nel caso in cui il diritto di tale Stato membro non autorizzi quel genere di matrimonio.

La pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione Europea

La Corte di giustizia europea si è pronunziata in via pregiudiziale sulla domanda proposta alla Corte suprema polacca, nei termini che seguono.

Innanzitutto, per la Corte la cittadinanza dell’Unione conferisce, a ciascun cittadino dell’Unione il diritto fondamentale e individuale di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

Il cittadino di uno Stato membro che abbia esercitato la propria libertà di circolare e di soggiornare in uno Stato membro diverso dal suo Stato membro d’origine, può avvalersi dei diritti connessi a tale qualità.

I diritti riconosciuti ai cittadini degli Stati membri da tale disposizione includono il diritto di condurre
una normale vita familiare sia nello Stato membro ospitante sia nello Stato membro del quale essi
possiedono la cittadinanza, al ritorno in tale Stato membro, ivi beneficiando della presenza, al loro
fianco, dei loro familiari, incluso il coniuge.

Il richiamo ai precedenti della Corte

La Corte ha anche citato i propri orientamenti, a sostegno delle argomentazioni rese alla Corte polacca.

Per quanto riguarda i familiari di un cittadino dell’Unione che siano cittadini di un paese terzo, la Corte ha dichiarato che, quando, nel corso di un soggiorno effettivo del cittadino dell’Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, ai sensi e nel rispetto delle condizioni poste dalla direttiva 2004/38, si sia sviluppata o consolidata una vita familiare in quest’ultimo Stato membro, l’effetto utile dei diritti che al cittadino dell’Unione interessato derivano dall’art. 21 par. 1 del TFUE impone che la vita familiare che tale cittadino abbia condotto nello Stato membro suddetto possa proseguire al suo ritorno nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, circostanza che implica, in particolare, l’obbligo per quest’ultimo di concedere un diritto di soggiorno derivato al familiare interessato, cittadino di un paese terzo.

La Corte ha già avuto occasione di constatare l’esistenza di un siffatto obbligo di concessione di un diritto di soggiorno derivato al coniuge di un cittadino dell’Unione, in una situazione in cui tale coniuge era cittadino di un paese terzo dello stesso sesso del cittadino dell’Unione e in cui il matrimonio con quest’ultimo è stato legalmente contratto nello Stato membro ospitante.

Per quanto riguarda la situazione di due cittadini dell’Unione che, come nel procedimento principale, convivono nello Stato membro ospitante e ivi hanno contratto matrimonio conformemente al diritto di quest’ultimo Stato membro, l’effetto utile dei diritti che tali cittadini traggono dall’art. 21 par. 1 del TFUE richiede a maggior ragione che essi possano avere la certezza di poter proseguire nello Stato membro di origine la vita familiare che hanno sviluppato o consolidato nello Stato membro ospitante, in particolare per effetto del loro matrimonio.

I limiti delle competenze degli Stati membri

La Corte ha poi riconosciuto che, allo stato attuale del diritto dell’Unione, le norme relative al matrimonio rientrino nella competenza degli Stati membri e il diritto dell’Unione non può pregiudicare tale competenza.

Gli Stati membri sono quindi liberi di prevedere o meno, nel loro diritto nazionale, il matrimonio per persone dello stesso sesso.

Tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, ciascuno Stato membro deve rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato FUE relative alla libertà riconosciuta a ogni cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri.

Il rifiuto, da parte delle autorità di uno Stato membro del quale due cittadini dell’Unione dello stesso sesso hanno la cittadinanza, di riconoscere il matrimonio che i medesimi hanno legalmente contratto in applicazione delle procedure previste a tal fine in un altro Stato membro, nel quale tali cittadini dell’Unione hanno esercitato la loro libertà di circolare e di soggiornare, può ostacolare l’esercizio del diritto sancito dall’art. 21 TFUE.

Ciò in quanto un siffatto rifiuto è tale da generare per i medesimi seri inconvenienti di ordine amministrativo, professionale e privato.

Le conseguenze derivanti dalle differenze delle normative dei Paesi membri

Per la Corte, il rifiuto di riconoscere il matrimonio impedisce ai cittadini dell’Unione, che hanno sviluppato o consolidato una vita familiare durante il loro soggiorno nello Stato membro ospitante, vivendovi come persone coniugate, di proseguire tale vita familiare beneficiando di detto status giuridico, certo e opponibile ai terzi, e li costringe a vivere, dopo il loro ritorno nel loro Stato membro d’origine, come persone non coniugate.

Pertanto, in assenza di riconoscimento di tale matrimonio nello Stato membro d’origine, esiste un rischio concreto che gli stessi cittadini siano seriamente ostacolati nell’organizzazione della loro vita familiare al loro ritorno in tale Stato membro.

Ciò in quanto essi si trovano nell’ impossibilità, in numerose attività della vita quotidiana, sia nella sfera pubblica sia in quella privata, di far valere il loro status matrimoniale, che invece è stato legalmente stabilito nello Stato membro ospitante.

Ne consegue che il rifiuto, opposto dalle autorità di uno Stato membro, di riconoscere il matrimonio di due cittadini dell’Unione dello stesso sesso, contratto durante il loro soggiorno in un altro Stato membro, costituisce un ostacolo all’esercizio del diritto di detti cittadini, sancito all’art. 21 par. 1 del TFUE di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

Infatti, un siffatto rifiuto avrà come conseguenza che detti cittadini dell’Unione si vedranno privati della
possibilità di ritornare nello Stato membro di cui sono cittadini proseguendo la vita familiare sviluppata o consolidata nello Stato membro ospitante.

L’introduzione di procedure “adeguate”

Per la Corte, è onere degli Stati membri che non autorizzino il matrimonio tra persone dello stesso sesso, introdurre procedure adeguate affinché sia riconosciuto un siffatto matrimonio qualora quest’ultimo sia stato contratto da due cittadini dell’Unione durante l’esercizio della loro libertà di circolazione e di
soggiorno conformemente al diritto dello Stato membro ospitante.

La scelta delle modalità di riconoscimento dei matrimoni contratti da cittadini dell’Unione durante l’esercizio della loro libertà di circolazione e di soggiorno in un altro Stato membro rientra nel margine di discrezionalità degli Stati membri nell’ambito dell’esercizio della loro competenza in materia di
norme relative al matrimonio.

Pertanto, la trascrizione degli atti di matrimonio nel registro dello stato civile di tali Stati membri costituisce solo una delle modalità idonee a consentire un siffatto riconoscimento.

Tuttavia, è necessario che tali modalità non rendano impossibile o eccessivamente difficile l’attuazione dei diritti conferiti dall’art. 21 TFUE e dall’art. 21 par. 1 della Carta.

A tale riguardo, occorre precisare che il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, sancito da tale disposizione, riveste carattere imperativo in quanto principio generale del diritto dell’Unione.

L’assenza di una modalità di riconoscimento equivalente a quella concessa alle coppie di sesso opposto costituisce una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e vietata dall’art. 21 par. 1 della Carta.

La risposta della Corte di giustizia europea

In forza delle argomentazioni che si sono dianzi riassunte, la Corte ha risposto alla questione sollevata dalla Corte suprema polacca dichiarando che:

l’art. 20 e l’art. 21 par. 1 del TFUE, letti alla luce dell’art. 7 e dell’art. 21 par. 1 della Carta, devono essere interpretati nel senso che essi ostano alla normativa di uno Stato membro che, con la motivazione che il diritto di tale Stato membro non autorizza il matrimonio tra persone dello stesso sesso, non consente di riconoscere il matrimonio tra due cittadini dello stesso sesso di detto Stato membro, legalmente contratto durante l’esercizio della loro libertà di circolazione e di soggiorno in un altro Stato membro nel quale hanno sviluppato o consolidato una vita familiare, né di trascrivere a tal fine l’atto di matrimonio nel registro dello stato civile del primo Stato membro, qualora tale trascrizione sia l’unico mezzo previsto da quest’ultimo che permette un tale riconoscimento“.


Potete leggere il testo integrale della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea QUI →

Perla relativa consulenza od assistenza nell’ambito degli argomenti trattati in questo articolo, potete contattare l’avv. Riccardo Spreafico e l’avv. Andrea Spreafico.

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