Diffamazione a mezzo stampa: no al carcere obbligatorio per il giornalista.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 150/2021, ha affermato che le norme vigenti che obbligano il giudice a punire con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa o della radiotelevisione, aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, siano incostituzionali.
Tali norme sono in contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere può produrre infatti l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri.
Le questioni sottoposte alla Corte Costituzionale
Le questioni sottoposte alla Corte possono riguardavano la compatibilità con la Costituzione, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, della previsione di pene detentive per il delitto di diffamazione commesso a mezzo della stampa in relazione alle seguenti disposizioni:
- art. 13 della Legge n. 47/1948, che commina la reclusione in via cumulativa rispetto alla pena pecuniaria, allorché la diffamazione a mezzo stampa consista nell’attribuzione di un fatto determinato;
- art. 595 comma III c.p., che prevede la reclusione in via meramente alternativa rispetto alla pena pecuniaria per il caso di diffamazione col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico.
La decisione della Corte Costituzionale
Secondo la Corte Costituzionale per la diffamazione a mezzo stampa è illegittimo il carcere obbligatorio per il giornalista.
La Corte ha ribadito innanzitutto che il diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti “costituisca pietra angolare di ogni ordinamento democratico”. Precisano però che “la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla dignità della persona”.
Pertanto, non è di per sé incompatibile con la libertà di manifestazione del pensiero una norma che consenta al giudice di applicare la pena della reclusione.
Ciò può però accadere esclusivamente nel caso in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità, dal punto di vista oggettivo e soggettivo.
In tutti gli altri casi, il giudice potrà applicare esclusivamente la pena della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, oltre che i rimedi e le sanzioni civili e disciplinari.
Perciò l’art. 595 comma III del Codice penale è stato considerato compatibile con la Costituzione, purché sia interpretato nel senso che la reclusione può essere applicata dal giudice soltanto in quelle ipotesi.
La dichiarazione di incostituzionalità
La Corte, con la sentenza n. 150/2021, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:
- dell’art. 13 della Legge 47/1948 (Disposizioni sulla stampa);
- dell’art. 30 comma IV della Legge 223/1990 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato).
La previsione della carcerazione
La legittimità costituzionale della previsione dell’art. 595 comma III c.p. permette al giudice di applicare la pena del carcere.
Sono i casi in cui a chi, ad esempio, si sia reso responsabile di “campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della –oggettiva e dimostrabile –falsità degli addebiti stessi”.
La necessità di una revisione della disciplina
La Corte ha sottolineato infine la necessità di una complessiva riforma della disciplina vigente.
Occorre “individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività”
Potete leggere il comunicato stampa della Corte QUI → e la versione integrale della sentenza QUI →